Un pellegrinaggio di Giustizia

Viaggio intenso, particolare, emotivamente faticoso, di cui è quasi impossibile fare una sintesi. E dire che ci eravamo preparati, incontrando gli organizzatori di Pax Christi (don Nandino Capovilla e Norberto Julini), seguendone le indicazioni, anche sui preparativi tecnici, abbiamo letto, ci siamo confrontati tra di noi a più riprese … L’impatto con la realtà è sempre diverso, più coinvolgente,  impegnativo, a volte scomodo.

Nel trasferimento dall’aeroporto di Tel Aviv a Gerusalemme don Nandino ci aveva esortati ad “osservare tutto”, fuori e dentro di noi, e direi che abbiamo seguito il consiglio riportando a casa decine di pagine scritte, registrazioni, fotografie e soprattutto emozioni forti in tutti i sensi, dall’impotenza per una situazione che appare senza vie di uscita, all’ammirazione, condivisione delle esperienze conosciute e condivise con i vari testimoni.

Nella mente ripassano Palestinesi ed Israeliani, Mussulmani ed Ebrei, tutti praticanti o meno, e coloro che hanno scelto di vivere lì, condividendo una realtà difficile, di frontiera, in una terra madre di tutti i conflitti ed in conflitto interno.

Condividono la vita in uno stato militarizzato, dove giovani soldati e soldatesse (tre anni di ferma per i maschi e due per le ragazze), sempre armati di tutto punto, presidiano check point, strade, luoghi sacri per le tre religioni monoteiste, campi profughi, zone militari, frontiere….

Guy è un obiettore di coscienza israeliano di cui abbiamo sentito l’esperienza al Patriarcato Latino di Gerusalemme.  Attivista del Movimento “Vivere Insieme” da 8 anni e mezzo, impegnato in azioni dirette nei campi profughi e presso insediamenti israeliani, lavora con beduini, contadini, con chi ha perso la propria terra. Accompagna fisicamente, con altri attivisti, i Palestinesi che portano al pascolo gli animali. Riprendono con le video camere le azioni che compiono, riprese utilizzate come prove dagli avvocati per le cause legali o come materiale per mostrare quanto accade. Non è mai stato militare, costretto, per 9 mesi ha continuato a “darsi malato” e poi non più considerato. Ricoverato più volte in ospedale, minacciato da militanti della destra e da coloni, non vede una soluzione al problema palestinese, soluzione che, secondo lui, deve arrivare dall’esterno. Commenta che a preoccupare Israele sia soprattutto il boicottaggio dei loro prodotti.

Il dottor Salim Anati vive nel campo profughi di Shuafat (Gerusalemme), luogo “costretto” dentro alte mura, da otto a dodici metri di altezza, a cui si accede tramite check point, sia a piedi che in auto. Non è Israeliano, ma ha nazionalità giordana – come tanti Palestinesi di Gerusalemme. Allontanati dal quartiere ebraico nel 1965, sono stati collocati dove sono ora, in case piccolissime per famiglie numerose. Negli anni aiutati dall’OLP, continua a vivere all’interno del campo profughi perché uscendone perderebbe il documento. Brutta è la condizione dei giovani che lasciano la scuola per aiutare economicamente la famiglia. Israele facilita la vendita di stupefacenti nel campo per cui la fascia giovanile si perde. Pagano le tasse senza avere servizi, non c’è raccolta dei rifiuti, le ambulanze non possono entrare nel campo, hanno carenza di medicinali. Hanno difficoltà ad andare all’ospedale di Gerusalemme, preferibilmente vanno a Ramallah.

Suor Alicia e le sue consorelle comboniane vivono in Gerusalemme Est. Ci siamo trovati bene e trattati con affetto da loro, a Casa Betania, comunità accogliente e sobria, che gestisce anche una scuola materna il cui giardino, dove giocano i bambini, è attraversato, a partire dal 2008/2009, dal muro di separazione. Questa comunità religiosa ha scelto di rimanere lì, in mezzo, nel quartiere dove operano come significativa presenza, affrontando anche tutte le conseguenze psicologiche di tale collocazione (panico, incertezza, disagio,…). Sono una cinquantina i bambini che frequentano la scuola materna, anche mussulmani come le maestre. Le suore considerano questa loro casa un luogo di riconciliazione e di incontro, un ponte, una porta tra popoli e le tre religioni.

Suor Alicia, donna dolce e disponibile, che è stata anche a Gaza ed in Africa, afferma quanto sia “difficile rimanere in questa situazione in cui non si vede soluzione…..” dove è importante “mantenere alta l’energia perché questo non blocchi noi prima di tutto, perché il desiderio di vita possa venire alla luce. Essere resistenti, operosi, creativi. Ci sono delle possibilità/semi. Dobbiamo essere esperti/acuti…”. Collaborano con rabbini democratici, con i medici per i diritti umani, anche israeliani; nonostante la situazione ad oggi appaia senza via di uscita, ci invita a cercare  i segni di luce. “Ricordatevi che c’è un mandorlo in fiore” come aveva risposto Geremia a Dio in una situazione disperata. Ed invita: “Cercate di tenere a bada la rabbia… coltivate la speranza”.

E la coltivano le sue consorelle suor Agnese e suor Aziza che condividono la vita e la lotta dei beduini del villaggio di Khan al-Ahmar dove è a rischio di demolizione una scuola (la scuola delle gomme perché costruita con pneumatici) ed il trasferimento di tutti gli abitanti in altro sito, vicino alla discarica di Gerusalemme. L’accompagnamento e la vicinanza, la condivisione della situazione, è determinante per la resistenza.

Il progetto Ricamo Palestinese a Ramallah dal 1988, presso il centro pastorale Melchita, rappresenta ancora la risposta al bisogno e desiderio di tante donne di partecipare alle spese di famiglia, salvaguardando la tradizione di trasmettere di generazione in generazione i motivi del ricamo e la cultura palestinese.

Parla correttamente l’italiano il dottor Nidal Salameh direttore della clinica Al Saqada a Betlemme. “Vogliamo aiutare il nostro popolo a resistere….” afferma, assistono gratuitamente i figli dei carcerati e dei martiri, in mezzo a grandi difficoltà, ma “Io sono fiducioso che un giorno avremo tutti i nostri diritti.. la libertà … la terra… la nostra forza è interna…”.

“Ci rifiutiamo di essere nemici” è scritto in tutte le lingue all’ingresso della Tenda delle Nazioni dove incontriamo Daoud Nassar a coltivare e presidiare la terra acquistata dal suo bisnonno 100 anni or sono, accerchiato da cinque incombenti colonie israeliane. Lo aiutano dei volontari, anche stranieri, impegnati nella raccolta dell’uva e delle olive. Vivono nelle grotte, come un tempo, ai campi estivi partecipano mussulmani e cristiani insieme. Occupare le grotte per questi soggiorni permette loro un maggiore controllo del territorio e presidio. Chi viene a fargli visita compra simbolicamente un albero e così Daoud può affermare che le piante non sono sue e quindi non possono essere sradicate. Determinato nel non voler vendere la sua terra, ha rifiutato un assegno in bianco da parte di Israeliani, non accetta persone armate.

Pare un campo di concentramento a cielo aperto Hebron, la città dei patriarchi, una delle colonie più violente. E’ una città occupata, militarizzata con soldati che dall’alto vigilano, il suq sotto una rete metallica, la moschea adiacente alla sinagoga con check point, i coloni che vanno alla preghiera armati, una strada preclusa ai Palestinesi e percorsa soltanto da Ebrei, soldati e rari turisti che camminano in un ambiente vuoto, attorniati da saracinesche dei negozi chiusi per rientrare poi nella città abitata.

I volontari dell’Operazione Colomba ed i giovani del comitato di resistenza nonviolenta “South Hebron Hills Commitee” ci accolgono ad At Tuwani e Sarura a sud di Hebron. Accompagnano i bambini dei villaggi a scuola, condividono con i pastori le loro lotte per la terra, condividono soprattutto le difficoltà di vita in quella terra, come l’assenza di acqua che non ti permette la doccia.

Al Caritas Baby Hospital di Betlemme incontriamo suor Gemma ad illustrarci questa struttura sanitaria “di eccellenza” con 80 posti per bambini e per 50 mamme, senza distinzione di appartenenza religiosa. Al di là delle cure, le mamme, le donne non vengono lasciate sole con i problemi dei loro bambini; trovano altre sei mamme che le accompagnano, si confrontano, senza distinzione tra madri mussulmane e madri cristiane, unite dalla sofferenza. L’intento è anche quello di rendere consapevole la donna della sua dignità; indipendentemente dalla presenza di figli o di situazione familiare, anche lei ha valore. La suora ci spiega che il muro, a pochi metri dalla clinica, è un grande ostacolo perché qualche volta le ambulanze non possono passarlo.

E’ desertica la valle del Giordano e l’acqua, sottratta ai Palestinesi e presidiata nei pozzi recintati da filo spinato, irriga le serre ed i frutteti di palme da dattero a destra della strada. Gli insediamenti sono vigilati all’ingresso, il market appena inaugurato con annesso caffè è precluso ai palestinesi. Mangiamo un ottimo riso con lenticchie, cipolle e verdurine che ci ha preparato la moglie di Rashed Khudairy, coordinatore attività della Jordan Valley Solidarity. Traspare l’abbandono per questi villaggi  pure da parte delle autorità palestinesi, lontane anche fisicamente. Ricorrono all’Alta Corte per far valere i loro diritti. L’acqua è il loro grande problema: ce ne sarebbe per tutti – Israeliani e Palestinesi – ci dice Rashed – ma continuamente subiscono attacchi alle strutture, alle taniche dell’acqua per invogliarli a lasciare il territorio, molto fertile. Ritengono che ormai la causa sia persa per loro! Sovente i Palestinesi lavorano per gli Israeliani, sfruttati e sottopagati, nelle aziende agricole nella valle del Giordano, senza assicurazioni, senza sindacato.

A Nablus, la capitale dei Samaritani, dopo una breve visita al pozzo dove Gesù ha incontrato la Samaritana, visitiamo il campo profughi di Balata (il più grande della Cisgiordania), per i profughi di Jaffa dal 1948. Dalle tende sono state poi costruite le case in muratura, che si innalzano sempre più per l’aumento della popolazione, ancora sotto l’agenzia UNWRA dell’Onu. La densità è molto alta e la vita all’interno ingovernabile. I bambini del Centro culturale Yafa ballano per noi la “danza del ritorno a casa” con sventolio di bandiere palestinesi. Ormai da 70 anni la chiave – raffigurata sul muro a Betlemme, nelle illustrazioni….. – è il simbolo del ritorno…. Sono 30.000 persone ammassate in un kmq di superficie. Intere generazioni sono nate e vissute qui, i bambini crescono tra i manifesti dei loro “martiri” armati di tutto punto ed affissi nelle strade.

Ogni sosta del viaggio ha dei volti da ricordare, anche se a memoria è difficile mantenere l’esatto ordine cronologico: non importa, cerchiamo di non dimenticare i visi di tutti quelli che abbiamo incontrato, attenti ad informarci su organi di stampa adeguati e sicuri (nena-news.it, su tutto il Medio Oriente o www.bocchescucite.org, voci dalla Palestina occupata), cerchiamo di condividere – anche se da lontano – la causa dei Palestinesi e degli Ebrei veramente democratici che riconoscono i diritti di coloro che abitano nella stessa terra.

Su tutto ciò si distende la struggente poesia  di Mahmoud Darwish, poeta palestinese, deceduto nel 2008, sepolto a Ramallah:  …… Ho dentro di me milioni di usignoli per cantare la mia canzone di lotta.”

Su tutto ciò si stende l’invito, più volte proposto, di suor Agnese e di suor Aziza, donne di resistenza e di lotta, forti di speranza, di pregare, pregare per la Palestina ed i suoi abitanti.

Appare altresì il “…mandorlo in fiore…” di suor Alicia che dice: “Buona parte del mio impegno è trovato nell’incontro con l’altro.. incontro che fa breccia nel muro” e permette di intrufolarsi perché sia Dio sia la storia sono creativi!

E fa capolino anche questo pensiero: “Anche i militari hanno paura” come ci ha detto, facendoci la spiegazione sul tetto, la suora comboniana commentando la  presenza sua e delle consorelle a Gerusalemme est.

 

Costanza Lerda