Sarajevo, Mostar, Srebrenica

Scuola di Pace di Boves e Centro di Formazione Milton Santos – Lorenzo Milani

La memoria vicina…. viaggio nella ex Jugoslavia

Arriviamo a Potocari – appena passata la frontiera tra Serbia e Bosnia-Erzegovina – nel pomeriggio del 6 luglio: stanno scavando delle fosse, piccoli parallelepipedi vuoti, sul pendio della collina, i bassi obelischi bianchi che già ricoprono i prati circostanti sono tutti uguali, cambiano soltanto i nomi, 8372 è il numero indicato di fianco all’elenco generale. I due poliziotti a guardia del memoriale dicono che è la prima volta che si ferma un pullman di italiani (altri sono passati, ma non in gruppo), intanto nel cielo volteggia un elicottero militare – a salvaguardia della sicurezza del luogo, ci spiegano.

Le ventisei persone che compongono il gruppo che quest’anno ha aderito alla proposta di viaggio della Scuola di Pace e del Centro di Formazione Santos-Milani, si disperdono nei vialetti, in silenzio, leggono sulle lapidi le date di nascita e di morte (tutti uomini), fotografano. Aspettavamo di arrivare a questo cimitero, ma ci compare all’improvviso, appena dopo il confine e prima di Srebrenica, dove nel luglio 1995, in pochissimi giorni sono state uccise più di ottomila persone, non prima di averle trasportate anche molto distante. Divisi gli uomini dalle donne ed i bambini, allontanati con l’inganno, pur in presenza delle forze ONU (in quel momento olandesi). E’ veramente una brutta storia, non l’unica purtroppo, come ci avevano spiegato nei giorni precedenti Daniela e Caterina, le due volontarie della Caritas Italiana che lavorano ora a Belgrado in un progetto teso allo studio ed all’organizzazione di una diversa modalità di assistere e curare i malati di mente ad oggi ancora ospitati nei quattro manicomi dello stato serbo.

Alla televisione, qualche giorno dopo, avremmo visto le riprese dell’inumazione di altre bare, più di 700, morti ritrovati nelle fosse comuni dal luglio dello scorso anno, riconosciuti mediante l’esame del DNA.

Ci hanno spiegato che si è arrivati ad individuare i tracciati degli spostamenti, che precedevano le esecuzioni e l’interramento in fosse comuni, anche lontane.

Caterina, arrivata in Bosnia per la sua tesi, ha appreso la lingua ed ha lavorato in un progetto di ricostruzione della memoria: vengono raccolti gli atti positivi che sono, nonostante tutto, accaduti, lo chiamano “coraggio civile”, partono da lì per avviare una ricostruzione di rapporti, di animi, di convivenza. E’ stata premiata, in questo ambito, una donna croata che a Mostar, durante l’assedio, ha salvato un bambino mussulmano e ne ricorda un’altra che, con il suo intervento, ha evitato a dieci persone, l’avvio in campo di concentramento.

La ragazza si sofferma sulla sua fatica nel comprendere a fondo i vissuti delle persone che incontra, anche dei suoi colleghi, quali conseguenze la guerra ha lasciato in ognuno: alcuni sono rimasti aperti verso la diversità quanto lo erano prima del conflitto, altri si sono chiusi ancora di più nelle loro posizioni. A tal proposito non esprime giudizi, si limita al racconto che fornisce a noi, che ascoltiamo, il senso della complessità di quanto si sta vivendo e soprattutto delle ferite recenti e non del tutto rimarginate.

La guerra che ha sconvolto queste terre è infatti ancora ben visibile sulle pareti delle case, dei condomini, con i fori dei proiettili, nei palazzi di Belgrado bombardati nel 1999 e per ora lasciati lì, in mezzo alla città, quasi a monito di quanto accaduto, nelle case non ancora ristrutturate, ma soprattutto negli animi e nei rapporti sociali.

Il giorno successivo a Sarajevo incontreremo – tramite Raffaella della Caritas Italiana – Suzana Bozic che lavora alla Caritas Internazionale della Bosnia-Erzegovina. Abbiamo l’appuntamento davanti alla cattedrale cattolica, ci parla, sulla scalinata, ha lo sguardo triste, molto triste rispondendo alle nostre domande, ma riesce a sorridere mentre ci invita ad assaporare tutte le bellezze del suo Paese e si dichiara sostanzialmente fiduciosa per il futuro, aspetto questo che, forse, le permette di continuare la sua attività di quotidiana vicinanza a forti sofferenze.

E’ infatti impegnata nel costruire occasioni di incontro con ex prigionieri di guerra e con famiglie che hanno perso i loro cari, nel tentativo di riuscire a lenire le conseguenze di questi traumi. Cercano di realizzare anche incontri pubblici per affrontare tali argomenti, con i tre gruppi croato, serbo e mussulmani di Bosnia, tutti vittime della stessa storia. Vogliono capire, caso per caso, avvicinarsi a queste persone che hanno patito tantissimo e farle parlare, tirare fuori per condividere le loro sofferenze.

Particolare attenzione viene data alle seconde generazioni, ai nati in tempo di guerra; lavorano con i bambini che soffrono dei dolori dei loro genitori. Sono stati avviati “campi volontari” a cui partecipano bambini di seconda generazione, in cui, ancora per scelta, si incontrano tra le diverse etnie.

E’ da lei che abbiamo la conferma di quanto sia complicata la situazione balcanica, considerevole la nostra fatica nel cercare ci comprendere almeno i fatti storici; ci spiega la doppia appartenenza: croato-serbo-bosniaco a cui si aggiungono le differenze religiose. Ad oggi, nella stessa scuola ci sono classi separate di bambini, con programmi diversi.

Suzana, a precisa domanda su che cosa possiamo fare noi, ci ha chiesto di non dimenticare la loro storia, di impegnarci nelle sedi opportune perché sia loro consentito di condurre una vita normale, andare all’estero per lavorare e per studiare e quale vicinanza e ricordo della nostra visita le abbiamo semplicemente consegnato un barattolo contenente un po’ della nostra terra, scambiata con una zolla di una fossa del memoriale di Srebrenica.

Sarajevo, che vedo per la prima volta, mi affascina per la sua storia, per la sua struttura, per come ha reagito all’assedio (visitiamo il tunnel costruito, sotto l’aeroporto, durante la guerra, scavato a mano da 70 persone, lungo 800 metri, alto 1,50).

Sarajevo, come Mostar, offre una visione di estesi cimiteri, che ricoprono pendii di colline, nei pressi dell’albergo che ci ospita, in mezzo alle case, vicinissimi al centro storico di questa città, che si sviluppa a forma di cuneo, come Cuneo. Lapidi e monumenti con nomi appaiono nei parchi cittadini, al limitare dei boschi, ci dicono che ancora oggi non sono state individuate tutte le fosse comuni.

Prima di arrivare a Belgrado, ci eravamo fermati al memoriale di Vukovar, in Croazia, situato fuori città, aperto dal 2000, con le tombe dei morti identificati, dei non identificati e quelle vuote dei non ritrovati, che riceve la visita di 100.000 persone all’anno. Mentre siamo lì arriva una scolaresca, depone la corona, un reduce claudicante spiega ai bambini “che cosa è costato creare la Croazia”, in una terra dove – ci dice la persona che accoglie i visitatori – i bar sono ancora separati ed i bambini andranno in classi insieme soltanto dal prossimo anno.

Abbiamo respirato il fascino nei monasteri serbi, sparsi nelle montagne, lontani da centri abitati, uno femminile fortificato (Manasija), dove monache in abito lungo e nero, custodiscono una memoria di centro culturale e letterario (in un’anta di armadio del piccolo negozio di ricordi è conservata una fotografia che ne ritrae due con il regista Emir Kusturica).

E poi Dubrovnik, ricostruita dopo la guerra, con i suoi tetti di coppi nuovi e rigorosamente uguali, città che ha riservato una sala dell’elegante palazzo Sponza, alla fine del celebre Stradùn, quale memoriale dei caduti nell’assedio del 1991-92.

Come ci aveva invitato a fare Suzana, abbiamo ammirato e goduto del paesaggio negli spostamenti nei tre stati (Croazia, Serbia e Bosnia-Erzegovina), diverso tra costa ed interno, ma tutto interessante e vario; abbiamo percorso i ponticelli e sentito lo scroscio delle acque nel parco di Plitvice, visitato i pregevoli monumenti delle città costiere, girato per mercati, parchi, centri storici, piazze animate e musei.

Resta la riflessione sulla ricchezza di una terra che, ancora ferita dalle recenti vicende, cerca di riproporsi vivace e desiderosa di superare le difficoltà che permangono a vario titolo sul proprio territorio e che determinano ancora la presenza di eserciti stranieri per garantire la sicurezza, di parecchi osservatori internazionali (ad esempio l’Osce – Organizzazione Sicurezza e Cooperazione in Europa), di associazioni e di ong con progetti specifici, sia negli stati dove c’è stato conflitto, sia dove permangono problemi di povertà e comunque di riconciliazione.

Costanza Lerda